Cella Grabinski |
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La realizzazione della
cella funeraria del generale Giuseppe Gioacchino Grabinski è
caratterizzata dalla variabilità dei tempi per la sua esecuzione:
diciotto anni dalla sua morte per giungere a progettare e costruire il
sacello, quindici giorni, “lavorando anche i festivi” per “arrivare
in tempo di collocare il monumento in detta cella avanti la prima domenica
di novembre.” La lunghezza del primo periodo tuttavia, permette ad uno
studente di Fontanelice, allora ancora in terra di Romagna, di iniziare
– proprio nel 1843, anno della scomparsa del generale – il Ginnasio ad
Imola e, tre anni dopo, di trasferirsi con la famiglia a Bologna per
frequentare l’Accademia di Belle Arti e la Pontificia Facoltà di
Filosofia (Fisica) Matematica. Un
trascorrere di anni, un dilatarsi di tempi, senza i quali Giuseppe Mengoni
non avrebbe avuto la possibilità di ideare e realizzare una delle opere
monumentali più apprezzate della Certosa bolognese. Per
il futuro ingegnere-architetto sono diciotto anni in cui l’idea dell’architettura
si forma, si sviluppa e matura, si confronta con la realtà dei concorsi e
della progettazione di apparati celebrativi, con i primi progetti per la
città nella quale ha condotto gli studi, con i riconoscimenti
professionali e gli scontri sulla paternità per un progetto bolognese.
Sono anni in cui si sviluppa ed emerge la forza del suo carattere, che,
nella professione, lo sosterrà nella tendenza nel precorrere i tempi. Una
propensione che coniugherà con i contenuti e le forme dell’architettura
rinascimentale, assieme ad aspetti consolidati dell’arte e della
tradizione artigiana bolognese. Parallelamente,
sono anche anni densi di avvenimenti basilari per la storia italiana, con
circostanze che porteranno, proprio nel 1861, all’unità del Paese. La
vita di Giuseppe Mengoni si incrocia inevitabilmente con i grandi eventi
del periodo, ne condivide gli ideali, partecipa in prima persona ai moti
che anelavano ad una nazione libera, unita e proiettata verso il futuro.
Sentimenti che egli trasfonderà nella sua concezione di città e che
avrà modo di rendere concreti nell’esperienza progettuale che coniuga l’idea
dell’architettura con l’urbanistica e che cambierà in modo radicale
il cuore di Milano. Il
monumento nella Certosa di Bologna, non vide la luce dietro la vincita di
un concorso come per il grande progetto milanese, ma su incarico personale
del figlio del generale, il conte Enrico. Furono probabilmente l’amicizia
o la conoscenza personale, senza tuttavia escludere motivazioni ancora
sconosciute, che su di lui fecero ricadere la scelta per l’incarico del
sacello. Fu, in ogni caso, una scelta felice. L’architetto fontanese, di
temperamento forte e passionale, con buona probabilità ritrovò nella
figura del generale Grabinski espressioni e sfumature del proprio
carattere, aspetti che avevano portato entrambi, anche se in tempi e
situazioni diversi, a partecipare in modo attivo e appassionato ad eventi
che si prefiggevano l’ordine e la libertà del territorio
emiliano-romagnolo e di quella che sarebbe diventata la nazione italiana.
Fu quindi probabilmente la persona più adatta per celebrare la figura di
un uomo del quale poteva comprendere aspetti del carattere che, mossi da
una passione libera da quegli eccessi che nella vita spesso degenerano,
avevano concorso ad imprimere il suo ricordo nella storia bolognese. Il
risultato sarebbe stato un monumento che ne avrebbe celebrato la memoria
fissando questo aspetto peculiare della personalità, attraverso la
sublimazione di sentimenti che sarebbero stati enfatizzati nei caratteri
impressi all’imponente ritratto marmoreo. Il
cammino della costruzione della Cella Grabinski può essere letto infine
come un filo d’Arianna che collega e rapporta tra loro tempi ed eventi
storici, idee, ideali e persone nelle diverse sfaccettature della loro
esistenza. È un cammino che racconta dello sconvolgimento provocato dall’imposizione
napoleonica di creare una città dei defunti separata dalla città dei
vivi, che perseguiva anche l’illusione dell’uguaglianza tra le
persone, almeno nella celebrazione del loro ricordo. Parla della vita del
conte generale Giuseppe Grabinski, della sua partecipazione alle vicende
della patria natale e a quella d’adozione e della sua complicata vita
coniugale. Ci rende partecipi della vita di Giuseppe Mengoni, del suo
percorso formativo che, come si vedrà, gli porterà stabili e importanti
amicizie nel campo accademico che continueranno anche in quello
professionale; e ci introduce a quest’ultimo, dove il suo progetto per
la Certosa diventa emblematico di molti altri simili. Una realizzazione la
sua, nella quale hanno operato artisti famosi come Massimiliano Putti e
Carlo Chelli assieme ad artigiani o meglio maestri d’arte, spesso
rimasti nell’anonimato, ma depositari di una conoscenza e di una
maestria che, con l’uso sapiente di un materiale povero come il gesso,
producevano opere d’arte che potevano competere con marmi e preziose
pietre dure. Racconta, ancora, della resistenza opposta nei primi decenni
del secolo al nuovo di ispirazione canoviana da parte dell’Accademia di
Belle Arti che, a Bologna, sovrintendeva alla qualità delle opere d’arte
per il nuovo cimitero cittadino. Continua confermando poi come, sostenuto
da posizioni diverse, sempre all’interno della stessa Accademia, il
nuovo inevitabilmente si imponga, ma in modo tutto particolare, senza
annullare i modi della tradizione, anzi impiegandoli e adattandoli assieme
a nuove forme e materiali, rendendo la Certosa di Bologna uno dei più
celebrati musei en plein air al mondo. Ci
fa comprendere e insegna, infine, come nella continuità dell’uso di
materiali e di tecniche, espressioni tipiche di un antico percorso d’ingegno,
non vi sia una difesa passiva verso il cambiamento, ma la coscienza
orgogliosa delle proprie radici attraverso valori non soggetti all’usura
del tempo.
© Anna-Maria Guccini |
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